Negli ultimi anni differenti studi hanno dimostrato come gli atleti impegnati in sport di contatto possono soffrire di alterazioni degenerative cerebrali, ma prima d’ora non esistevano prove che questo deterioramento potesse interessare anche i giocatori di calcio.
Un’analisi epidemiologica retrospettiva, pubblicata nei giorni scorsi sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, ha invece evidenziato una mortalità più elevata per malattie neurodegenerative tra gli ex calciatori professionisti scozzesi.
Le encefalopatie legate allo sport
Gli sport di contatto implicano quasi inevitabilmente che il tessuto cerebrale subisca traumi ripetuti, causando anche commozioni cerebrali ed encefalopatie traumatiche. Le prime possono essere del tutto asintomatiche, ma se più gravi possono causare anche una perdita di coscienza e disturbi neurologici.
Per quanto questi traumi possano essere piccoli e privi di conseguenze immediate, se lo sport viene svolto a livello professionale, per molti anni, si creano delle lesioni cerebrali che portano ad una vera e propria encefalopatia traumatica cronica.
In sostanza, nel tessuto nervoso del cervello che subisce traumi ripetuti, per quanto piccoli, si accumula nel tempo una sostanza, chiamata p-tau (proteina tau fosforilata). La proteina tau è normalmente presente all’interno delle cellule, dove svolge un ruolo importante. Se però viene alterata si accumula, provocando una progressiva degenerazione del tessuto nervoso che può causare gravi malattie debilitanti. Ad esempio, questi aggregati anomali di proteina tau modificata si trovano tipicamente nel cervello dei pazienti con malattia di Alzheimer.
I traumi possono far parte della quotidianità di vita dell’atleta professionista, ma se le lesioni delle ossa, dei muscoli o dei legamenti creano problemi immediati, a cui si corre ai ripari con trattamenti immediati, i traumi cerebrali ripetuti agiscono nel tempo. Rimangono silenti per molti anni, ma poi, in età più avanzata, le alterazioni degenerative del tessuto cerebrale cominciano a manifestarsi. Compaiono così deficit cognitivi e neurologici, che possono provocare disturbi del movimento, tremori, demenza, psicosi e portare anche ad un abuso di alcol.
Encefalopatia traumatica e football americano
Gli studi che hanno dimostrato la presenza di lesioni neurodegenerative in atleti professionisti sono molti e si susseguono da molti anni. Lo sport che più è stato posto sotto l’attenzione dei ricercatori è certamente il football americano (leggi i precedenti articoli su questo argomento pubblicati nel 2017 e in marzo 2019). Gli interessi economici e di immagine in questo sport hanno per anni contribuito alla negazione dei pur evidenti effetti dei traumatismi cerebrali indotti dalla violenza dei contatti sul campo.
Su questo argomento è stato anche realizzato un bellissimo film, tratto da una storia reale, dal nome originale molto indicativo: “Concussion”, “Zona d’ombra” nella pellicola italiana. Protagonista è Will Smith che interpreta il ruolo del dottor Bennet Omalu, neuropatologo di colore, che scoprì l’encefalopatia cronica traumatica tra i giocatori di football americano.
Il medico dovrà così confrontarsi con il gigante rappresentato dalla National Football League, che rifiuta e minimizza le sue scoperte per anni. Dopo molto tempo, nonostante intimidazioni e soprusi, difronte a evidenze inconfutabili riesce a costringere i dirigenti sportivi ad ammettere gli effetti deleteri dei traumi cerebrali ripetuti.
A seguito di questa ammissione la lega è così costretta a prendere provvedimenti per cercare di limitare l’eccesso di violenza nel football e con controlli sanitari più assidui sugli atleti.
L’encefalopatia traumatica nei calciatori
Questo nuovo studio ha posto l’attenzione sui calciatori, uno sport a volte caratterizzato da contatti violenti, ma in cui piccoli traumatismi cerebrali potrebbero essere causati anche dal gioco di testa.
I ricercatori scozzesi, coordinati dall’Università di Glasgow, sono andati a cercare tra i registri sanitari locali ed hanno confrontato la mortalità dovuta a malattie neurodegenerative tra oltre 7.000 ex calciatori professionisti scozzesi con quella di circa 23.000 soggetti di riferimento, non calciatori.
I risultati della ricerca hanno evidenziato che la mortalità in generale era più bassa tra gli ex giocatori piuttosto che nel resto della popolazione, così come la mortalità legata a malattie cardiache delle coronarie e quella per il tumore polmonare.
Hanno però scoperto che nella popolazione generale le morti per malattie neurodegenerative era dello 0,5%, mentre tra gli ex calciatori era dell’1,7%. Più di tre volte maggiore.
Anche la prescrizione di farmaci per la demenza è risultata essere più frequente negli ex giocatori, rispetto al resto della popolazione studiata. Inoltre, e interessante osservare come questi farmaci venissero prescritti meno frequentemente nei portieri rispetto ai giocatori impegnati negli altri ruoli.
Lo sport fa bene o male?
La ricerca scozzese è una semplice analisi epidemiologica retrospettiva, con tutti i limiti legati a questa procedura di studio. Sembra però indicare chiaramente una maggiore mortalità per malattia neurodegenerativa negli ex calciatori professionisti.
Il calcio è sport ben diverso dal football americano, ma l’impiego del gioco di testa potrebbe causare ripetuti microtraumi cerebrali anch’essi responsabili di una malattia neurodegenerativa.
Ma allora, lo sport fa bene o male? Verrebbe da chiedersi.
Non ci sono dubbi che l’attività sportiva sia salutare, a qualsiasi età venga praticata. Vi sono addirittura chiare evidenze che un’attività fisica regolare porta ad un rallentamento del declino cognitivo, prevenendo così la demenza.
Altra cosa sono però gli sport praticati a livello professionistico, in particolare quando le carriere sono lunghe. Spingere le prestazioni fisiche a livelli elevati, impegna muscoli, articolazioni, legamenti in modo a volte esasperato, provocandone inevitabilmente una maggiore usura nel tempo.
A questo si affiancano le lesioni traumatiche che non colpiscono solo gli organi e gli apparati periferici ma anche il cervello.
Va prestata attenzione anche alla famigerata attività sportiva cosiddetta amatoriale. Quella praticata solitamente dalle persone non più giovani. Molto spesso viene svolta con un tale accanimento e competitività da mettere a rischio la salute dei praticanti, piuttosto che preservarla.
Piccoli e grandi traumi
I risultati di questo recente studio, finanziato anche dalla Football Association and Professional Footballers’ Association, mette in luce il fatto che non sono solo i grandi traumi sportivi, fortunatamente poco frequenti, a creare problemi di salute al tessuto nervoso cerebrale, ma piuttosto i piccoli traumi ripetitivi. Il gioco di testa in questo caso potrebbe avere un ruolo importante. Pensiamo a quanti colpi di testa è chiamato un giocatore nel corso di tutta la sua carriera, allenamenti compresi. Il fatto che i portieri sembrino meno coinvolti potrebbe confermare questa ipotesi.
Piccoli traumi che al momento non danno alcun sintomo, ma che nel corso della vita potrebbero portare a manifestazioni neurologiche debilitanti.
L’importanza della prevenzione
I risultati di questo studio non devono mettere in ansia gli sportivi e soprattutto i genitori dei giovani calciatori.
Così come è stato fatto per il football americano va però intrapresa una seria prevenzione che miri a ridurre i traumi, piccoli e grandi. Va cambiato il modo in cui si insegna lo sport, addestrando gli atleti a pratiche sicure su come si affronta il contatto con l’avversario, penalizzando le azioni spericolate.
Per i giocatori professionisti andrebbero svolti periodici controlli, mirati a rivelare precocemente eventuali alterazioni nei processi neurocognitivi, per impedire un’ulteriore esposizione ai traumi.
Nessuno sport va demonizzato, vanno conosciuti i suoi aspetti positivi, ma anche quelli negativi, per poterli prevenire e trarre così il meglio da quello che ogni pratica sportiva può dare.
Franco Folino