Sono passati molti anni ormai da quando per la prima volta fu ammesso un possibile rischio, per malattie neurologiche post-traumatiche, in atleti statunitensi che praticavano il football americano.
Fu un periodo molto conflittuale, che coinvolse in una dura battaglia scientifica e legale medici e dirigenti delle società sportive, nonché la stessa NFL, ovvero la National Football League. La NFL, associazione dall’enorme potere politico ed economico, derivante dall’essere al governo dello sport più popolare della nazione, si pose dapprima in una posizione di totale rifiuto nei confronti delle evidenze scientifiche che andavano via via accumulandosi. Solo al termine di un durissimo e impari confronto, l’associazione che riuniva le squadre professionistiche degli Stati Uniti finì per ammettere, difronte a evidenze anatomopatologiche incontrovertibili, che il gioco del football poteva causare lesioni traumatiche neurologiche, con conseguenze cliniche che erano ben evidenti agli occhi di tutti.
Da allora molti studi hanno confermato l’esistenza di queste alterazioni post-traumatiche e anche in questi giorni, a conferma della costante attualità di questo problema, arriva sulle pagine di JAMA un lavoro che ha voluto determinare le caratteristiche neuropatologiche e cliniche dei giocatori di football deceduti con encefalopatia traumatica cronica (ETC).
I dati sono stati raccolti dalla “banca del cervello” della Concussion Legacy Foundation, che è stata creata dal 2008 per meglio comprendere gli effetti a lungo termine dei traumi ripetitivi occorsi nella partecipazione a sport di contatto e ad eventi militari, esaminando i riscontri neuropatologici e la presentazione clinica dei donatori di cervelli considerati a rischio di sviluppare una ETC.
Sono stati inclusi nell’analisi i cervelli di 202 donatori deceduti a un’età media di 66 anni. Una ETC è stata diagnosticata all’esame neuropatologico nell’87% dei casi. Gli atleti avevano partecipato a competizioni agonistiche mediamente per 15 anni.
E’ interessante il confronto tra prevalenza della patologia e il livello agonistico praticato, con percentuali del 21% nei giocatori delle scuole superiori, che salgono al 91% per gli atleti dei college e al 99% nei giocatori della NFL.
Una ETC lieve è stata riscontrata in soggetti deceduti a un’età mediana di 44 anni, mentre una patologia grave è stata riscontrata in ex atleti deceduti a un’età mediana di 71 anni.
Ancor più sconcertanti sono i dati relativi alle cause dei decessi. La causa più comune di morte per i partecipanti con ETC lieve è stata il suicidio; per quelli con patologia grave sono state le malattie neurodegenerative, vale a dire correlate alla demenza o al morbo di Parkinson.
Nei casi con patologia lieve sono state identificate lesioni perivascolari isolate nei solchi profondi della corteccia cerebrale, più comunemente nella corteccia frontale superiore e dorsolaterale, ma anche in quella laterale, inferiore, parietale e insulare.
Nei casi con patologia grave, le lesioni perivascolari erano grandi e confluenti, con grovigli neurofibrillari ampiamente distribuiti nelle lamelle superficiali delle regioni corticali. Gravi degenerazioni neurofibrillari
Sono state riscontrate nelle strutture mediali del lobo temporale, compreso l’ippocampo, l’amigdala e la corteccia entorinale.
La deposizione di sostanza β-amiloide è stata rilevata in un sottogruppo di pazienti, con qualsiasi stadio della malattia, come placche diffuse, ma anche in forma di placche neuritiche e di angiopatia amiloide.
Dal punto di vista del quadro clinico, è stato comune il riscontro di disturbi comportamentali o dell’umore (89% dei casi gravi). Di frequente riscontro anche impulsività, sintomi depressivi, apatia e ansia. Sono stati registrati inoltre, disperazione, violenza verbale, violenza fisica e comportamenti suicidari.
Anche i sintomi cognitivi erano comuni nei pazienti con ETC leggera o grave, così come le alterazioni della memoria.
Questi risultati sono per certi versi sorprendenti, non solo per l’alta incidenza della ETC nei giocatori di football, con ben chiari e obbiettivabili segni clinici della malattia, ma per quanto questo problema persista ormai da decenni, senza che si siano potute o volute trovare soluzioni efficaci.
Dalla fase di sconcerto per la dimostrazione dei danni indotti da ripetuti traumi sportivi, si è passati a una sorta di passiva accettazione, o forse negazione, rafforzata dall’intaccabile solidità delle società sportive, grandi e piccole, dilettantistiche o professionali.
Anche se la NFL enfatizza il miglioramento delle attrezzature e delle regole di gioco, quanto emerge da questo studio sembra indicare che pochi risultati concreti sono stati ottenuti con il passare degli anni.
Pensare che l’esposizione cronica a traumi cerebrali cronici, per quanto di piccola entità, possa essere priva di conseguenze è del tutto illogico, ma lo sforzo di chi è impegnato in prima linea nella prevenzione e nella cura delle patologie legate alla pratica sportiva è ignorato da chi invece dovrebbe prendersi cura dei propri iscritti, come se l’impegno a favore di uno sport più sicuro fosse irrazionalmente da respingere.
Franco Folino