La trombosi in gravidanza non è un evento particolarmente raro e rappresenta la principale causa di mortalità e morbilità di questa condizione.
Durante la gravidanza ci si trova, in effetti, in uno stato di ipercoagulabilità dovuto alla maggiore produzione di fattori della coagulazione, una diminuzione dell’attività della proteina S e all’inibizione della fibrinolisi. Questi cambiamenti fisiologici causano episodi di tromboembolismo venoso con una prevalenza di circa 1-2 casi su 1000 gravidanze, vale a dire un rischio dalle cinque alle dieci volte maggiore in gravidanza rispetto a quello espresso da coetanee non in gravidanza.
Questa situazione fisiologica può però essere aggravata da una trombofilia, sia primaria sia acquisita. In questo gruppo di soggetti si avrà così un tasso significativamente più alto di trombosi venosa, con un rischio maggiore di oltre trenta volte. Proprio in questa popolazione si riconosce un beneficio di un trattamento anticoagulante profilattico, prima del parto, ma anche dopo, quando il rischio per l’embolia polmonare è più elevato.
Ovviamente l’utilizzo di anticoagulanti in gravidanza introduce un rischio al momento del parto, quando il bilancio tra eventi emorragici e trombotici diventa critico.
In quest’ambito non esistono molti studi clinici, ma è stata recentemente pubblicata sul British Medical Journal una metanalisi che ha cercato di far chiarezza sul reale rischio tromboembolico in gravidanza.
Lo studio ha incluso nell’analisi 36 sperimentazioni, che comprendevano complessivamente oltre 41.000 donne in gravidanza, di cui circa 6.000 con trombofilia.
I risultati hanno dimostrato che gli odds ratio più elevati si associavano a una carenza di antitrombina, a una carenza di proteine C e S e a una mutazione eterozigote del fattore V di Leiden. Considerando il rischio assoluto di eventi tromboembolici, è risultato come il fattore di rischio più importante sia stato la familiarità per la deficienza di antitrombina.
Complessivamente, solo il 26% degli eventi tromboembolici si è verificato prima del parto, la maggioranza nelle fasi successive (74%). Nei casi di trombofilia ad alto rischio il 56% degli eventi si è verificato nel post-partum, in quelle a basso rischio, o in assenza di trombofilia, nell’82% dei casi.
Questa metanalisi sembra quindi evidenziare con chiarezza come le donne con trombofilia ereditaria hanno un rischio particolarmente elevato di eventi tromboembolici in corso di gravidanza.
Proprio in questa popolazione di donne sembra quindi appropriata una profilassi antitrombotica, mentre in quelle con mutazione eterozigote del fattore V di Leiden le stime del rischio non sembrano indicare un’utilità del trattamento preventivo.
Certo è che la stratificazione del rischio tromboembolico in gravidanza, e un suo trattamento, è un problema clinico estremamente complesso, che dovrebbe essere discusso collegialmente da una squadra multidisciplinare che coinvolga ostetrica, ematologo, cardiologo e anestesista.