L’angioplastica coronarica è una procedura nata per il trattamento dell’angina stabile, che poi si è evoluta nel tempo, diventando il trattamento di scelta nelle sindromi coronariche acute.
Lo scopo della procedura nel caso di una coronaropatia stabile, è però esclusivamente quello di risolvere i sintomi nei pazienti in cui il trattamento farmacologico non sia efficace, mentre non offre alcun vantaggio per quanto riguarda la prognosi a lungo termine.
Trattandosi di una procedura invasiva, è però facilmente intuibile come possa esercitare sul paziente anche un cospicuo effetto placebo, così che un gruppo di ricercatori del Regno Unito ha voluto verificare se il miglioramento dei pazienti non fosse attribuibile a questo effetto, piuttosto che a un reale cambiamento di funzionalità del circolo coronarico.
Con un perfetto disegno in doppio cieco, randomizzato e controllato, 200 pazienti, con angina stabile nonostante un trattamento medico ottimale, sono stati assegnati a una vera procedura di rivascolarizzazione coronarica, oppure a un trattamento transcatetere placebo. A sei settimane dalla procedura i pazienti sono stati rivalutati con un questionario sull’angina, con un test da sforzo cardiopolmonare e con un eco-stress con dobutamina. L’endpoint primario dello studio è stato la differenza di incremento dei tempi di esercizio tra i due gruppi, prima e dopo il trattamento.
I risultati hanno evidenziato come non esisteva alcuna differenza significativa tra i gruppi in termini di incremento dell’esercizio fisico al test cardiopolmonare. Anche per quanto riguardo gli endpoint secondari, che includevano differenti indici e dati anamnestici, non è stata evidenziata una differenza significativa tra i due gruppi di pazienti per quanto riguarda l’entità della depressione del tratto ST e il picco di assorbimento di ossigeno al test da sforzo.
Questo studio, chiamato con l’ambizioso acronimo di ORBITA (Objective Randomised Blinded Investigation with optimal medical Therapy of Angioplasty in stable angina), fornisce dati drammaticamente chiari, che sembrano rendere del tutto inutili le circa 500.000 procedure di rivascolarizzazione percutanea che sono effettuate annualmente nel mondo, in pazienti con angina stabile. Si conferma in sostanza quanto già universalmente riconosciuto, ovvero che le procedure invasive, di qualsiasi tipo, sono associate a un sostanziale effetto placebo, ben maggiore di quanto può essere indotto dall’assunzione di una semplice compressa. Va quindi tenuto sempre in grande considerazione, quando si analizzano gli effetti di questi trattamenti.
Sarà molto interessante vedere se e come queste indicazioni saranno recepite dalle linee guida sull’argomento.
Franco Folino