Gli anticorpi monoclonali stanno diventando via via sempre più utilizzati nel trattamento di differenti condizioni, quali le neoplasie, la sclerosi multipla o l’ipercolesterolemia, solo per citarne alcune. Gli studi clinici che stanno sempre più arricchendo la letteratura sull’argomento, lasciano pochi dubbi sulla loro efficacia, ma il limite più importante alla diffusione di questi preparati è, e sarà in futuro, il loro costo elevato.
Sulle pagine del New England Journal of Medicine, arriva ora un nuovo studio che dimostra l’efficacia del romosozumab, un anticorpo monoclonale umanizzato, nel trattamento dell’osteoporosi.
Obiettivo del romosozumab è la sclerostina, una proteina prodotta dagli osteociti che è in grado di inibire la neoformazione ossea da parte di osteoblasti. Una sua riduzione toglierebbe così il freno inibitore alla produzione di nuovo tessuto osseo.
Lo studio ha randomizzato 4.093 donne in postmenopausa, con osteoporosi e una frattura da fragilità, a un trattamento con romosozumab, somministrato per via sottocutanea mensilmente, o a un classico trattamento con alendronato, ad assunzione settimanale (70mg). Questa prima fase dello studio era seguita da un periodo di trattamento con il solo alendronato, in aperto, per entrambi i gruppi.
Gli endpoint principali dello studio erano l’incidenza cumulativa di fratture vertebrali a 24 mesi e l’incidenza cumulativa della frattura clinica (nonvertebrale e frattura vertebrale sintomatica).
Nel corso di un follow-up complessivo di 24 mesi, le pazienti che avevano assunto nella prima fase dello studio romosozumab, hanno evidenziato una minore incidenza di nuove fratture vertebrali rispetto al gruppo trattato con alendronato (6,2% versus 11,9%).
Anche considerando le fratture non vertebrali, le pazienti trattate con romosozumab e poi alendronato hanno dimostrato una minore predisposizione a questo evento rispetto al gruppo trattato con il solo alendronato (8,7% versus 10,6%).
L’incidenza cumulativa di fratture cliniche è stata anch’essa a favore del primo gruppo (9,7% versus 13%), così come quella di fratture dell’anca.
L’efficacia clinica del trattamento con romosozumab è stata supportata anche dalle indagini strumentali, che hanno dimostrato come l’anticorpo monoclonale abbia fatto migliorare la mineralometria ossea nel tempo, più che il solo alendronato. E’ interessante notare come il miglioramento dei dati strumentali dopo 12 mesi di trattamento con il nuovo farmaco, si è mantenuto fino a 36 mesi, nonostante il passaggio al trattamento con alendronato.
Oltre all’efficacia del trattamento, lo studio ha posto attenzione anche alla sua sicurezza.
I dati hanno evidenziato una simile incidenza complessiva di eventi avversi gravi nella prima fase dello studio. D’altra parte però, è stata dimostrata una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari durante i primi 12 mesi dello studio (2,5% versus 1,9%). Tra le pazienti trattate con romosozumab, lo 0,8% ha riportato eventi ischemici cardiaci, nei confronti dello 0,3% del gruppo trattato con alendronato.
Questi risultati non lasciano quindi dubbi sull’efficacia di romosozumab nel trattamento dell’osteoporosi, ma permangono alcune perplessità che riguardano gli eventi cardiovascolari documentati, che andranno valutati con estrema attenzione nella gestione di questa cura.