Da quando il dottor Alain Cribier ha introdotto nel 2002 la procedura di impianto della valvola aortica attraverso un approccio transcatetere (TAVR), questa tecnica si è rapidamente diffusa in tutto il mondo incrementando esponenzialmente il numero degli impianti eseguiti.
Le ultime linee guida AHA/ACC per la gestione dei pazienti con valvulopatie (leggi l’articolo sull’argomento in altra parte del giornale), raccomandano l’utilizzo di questa tecnica nei pazienti con stenosi aortica severa sintomatica e rischio chirurgico elevato o proibitivo.
Ad oggi sono disponibili sette protesi impiantabili attraverso catetere, tutte biologiche, con lembi in tessuto porcino o bovino, alcune delle quali possono essere anche riposizionate e recuperate (Sapien 3, Edwards Lifesciences; Evolut R, Medtronic; Portico, St. Jude Medical; Acurate Neo, Symetis; JenaValve, JenaValve Technology; Lotus, Boston Scientific Corporation; Allegra, NVT AG).
A quindici anni dal primo impianto arriva ora uno studio che ha voluto esaminare l’associazione tra esperienza del centro che svolge la procedura di TAVR, misurata utilizzando il volume ospedaliero cumulativo, e gli esiti della procedura.
L’analisi è stata sviluppata utilizzando i dati raccolti in un registro, il “Transcatheter Valve Therapy Registry”, che è gestito dalla Society of Thoracic Surgeons e dall’American College of Cardiology.
Il periodo considerato è stato quello compreso tra novembre 2011 e novembre 2015. In questo intervallo sono state registrate 47.270 procedure, eseguite da 1.927 operatori dislocati in 395 centri. Di queste, 42.988 procedure sono state considerate nell’analisi.
I pazienti inseriti avevano un’età mediana di 83 anni e il 49% erano donne. La maggioranza (74.5%) aveva una frazione di eiezione maggiore del 45%; una grande maggioranza (92.6%) aveva una valvola nativa tricuspide. In 30.566 pazienti (71.1%) l’accesso arterioso è stato eseguito attraverso l’arteria femorale, nel 91% dei casi è stata utilizzata un’anestesia generale.
Gli outcome considerati, vale a dire mortalità, complicazioni vascolari, sanguinamento e ictus, si sono presentati con minor frequenza nei centri con volume più elevato di procedure. E’ stata inoltre evidenziata un’associazione lineare inversa significativa tra mortalità ospedaliera e volume delle procedure eseguite nel centro. Un’associazione non lineare è stata dimostrata anche per le complicazioni vascolari e i sanguinamenti. Così appare molto chiaramente dai grafici presentati come la mortalità, dal primo paziente eseguito al quattrocentesimo caso, passi dal 3.6% al 2.1%, e per quanto si può desumere dal trend della curva, queste percentuali sembrano destinate a ridursi ulteriormente all’aumentare del numero delle procedure eseguite.
Quest’analisi dimostra quindi, come peraltro era prevedibile, come all’aumentare delle TAVR eseguite si riducano mortalità e morbilità procedurale. Suggerendo così di concentrare in pochi centri, alti volumi di procedure, per ottenere migliori risultati.
Si tratta di risultati che non sorprendono. Per tutte le procedure mediche innovative è prevista una curva di apprendimento del centro, che si protrae più o meno a lungo, a seconda del numero delle procedure eseguite. I fattori che contribuiscono a disegnare queste curve sono molti e specifici per il tipo di intervento. Generalmente vale però la regola che più alto è il loro numero, migliori sono i risultati ottenuti e minori le complicanze.
Nonostante queste comuni regole siano ben conosciute, non sempre però le politiche sanitarie sembrano tenerle in considerazione e non raramente osserviamo come procedure complesse vengano eseguite in centri con bassi volumi, con inevitabili maggiori rischi per i pazienti e notevoli oneri economici per la sanità. Una frammentazione dei centri che eseguono una specifica procedura sarà certamente gratificante per il centro, ma poco efficiente per pazienti e tasche dei contribuenti.
Franco Folino