Più conosciamo la fibrillazione atriale e la sua vasta diffusione tra le persone anziane, più cresce la percezione che molti casi non vengano diagnosticati precocemente, esponendo i pazienti al rischio di eventi tromboembolici. Questa percezione è rafforzata dal fatto che molti degli episodi aritmici rilevati occasionalmente sono del tutto asintomatici.
È evidente che esistono soggetti maggiormente a rischio di sviluppare una fibrillazione atriale, perché hanno un’età avanzata, una dilatazione atriale sinistra, un’insufficienza cardiaca o sono diabetici. Una volta identificati ci si trova però difronte allo scoglio più importante: come documentare la presenza dell’aritmia?
Data per consolidata l’affidabilità degli strumenti di registrazione, il punto critico è la durata della stessa registrazione, che ovviamente più è prolungata, più fa aumentare le probabilità di cogliere l’evento aritmico.
Negli ultimi decenni il monitoraggio elettrocardiografico ha subito un’evoluzione tecnologica enorme e si sono resi disponibili strumenti di registrazione elettrocardiografica di lunga durata che, grazie a dispositivi impiantabili, hanno prolungato l’intervallo di osservazione fino a 2-3 anni. Questi registratori di ultima generazione, sono decisamente i più efficaci nella diagnosi delle aritmie che compaiono sporadicamente, hanno però il difetto di essere ancora molto costosi e prevedere un impianto cruento, per quanto ormai molto poco invasivo, per le piccole dimensioni raggiunte.
Quello che si cerca quindi è un monitoraggio di lunga durata, poco costoso, con un’applicazione ben tollerata dal paziente e, possibilmente, che sia connesso continuamente in modalità remota con il centro cardiologico di riferimento.
Il fatto che questi dispositivi di registrazione saranno disponibili, presto o tardi, è cosa certa, ma nel frattempo continuano le dimostrazioni sperimentali di una più frequente diagnosi di fibrillazione atriale se si applicano sistemi di monitoraggio elettrocardiografico adeguati.
Ultimo tra questi, è uno studio apparso sulla rivista JAMA, dove per rivelare la presenza di episodi di fibrillazione atriale viene utilizzato un cerotto-registratore, auto applicabile.
Sono stati valutati complessivamente 2.659 pazienti con un’età media di 72 anni, che sono stati randomizzati a un monitoraggio attivo a domicilio, con il cerotto auto-applicabile, o a nessun monitoraggio. Quelli che non venivano avviati al monitoraggio, lo iniziavano dopo 4 mesi, per partecipare ad uno studio osservazionale su un follow-up più lungo. Il monitoraggio si svolgeva sia a casa che durante le attività quotidiane, per un massimo di 4 settimane.
L’endpoint primario era l’incidenza di una nuova diagnosi di fibrillazione atriale a 4 mesi.
Nello studio randomizzato, una fibrillazione atriale di nuova insorgenza è stata identificata nel 3,9% dei soggetti in cui veniva applicato il cerotto-registratore e solo nello 0,9% di quelli non monitorati.
Nello studio osservazionale, a 1 anno, l’aritmia è stata nuovamente diagnosticata in 109 soggetti monitorati (6,7 per 100 persone-anno) e in 81 non monitorati (2,6 per 100 persone-anno).
Il monitoraggio attivo, e quindi l’identificazione della fibrillazione atriale, sono stati associati a un aumento dei trattamenti con anticoagulanti, delle visite cardiologiche ambulatoriali e delle visite di assistenza primaria. Al contrario non sono state evidenziate differenze tra le frequenze di visita al pronto soccorso o per ricovero, correlati all’aritmia.
Questo studio, com’era peraltro atteso, dimostra che un efficace e ben tollerato sistema di monitoraggio elettrocardiografico prolungato, può incrementare in modo significativo la frequenza di diagnosi di fibrillazione atriale, consentendo di iniziare prontamente un trattamento profilattico contro gli eventi tromboembolici.
Resta da osservare come le attuali linee guida in tema di fibrillazione atriale, pur riconoscendo una fase episodica iniziale dell’aritmia, spesso asintomatica, siano piuttosto vaghe sull’opportunità di svolgere periodi di monitoraggio elettrocardiografico, in soggetti che non presentano una sintomatologia tipica per l’aritmia o abbiano eventi ischemici suggestivi.
È evidente che non è pensabile l’utilizzo di un sistema come quello utilizzato nello studio su vastissima scala, almeno per il momento. D’altra parte, se il cardiopalmo è un sintomo molto generico, l’associazione con altre caratteristiche cliniche specifiche del paziente può certamente aiutare a selezionare in modo accurato i soggetti in cui siano maggiori le probabilità di rivelare l’aritmia.
Franco Folino
Guarda il video che illustra in modo sintetico i metodi e i risultati dello studio.