Sono passati ormai molti anni da quando i primi studi evidenziavano un’associazione tra fratture ossee e assunzione a lungo termine di anticoagulanti orali, in particolare il warfarin.
Il principio fisiopatologico su cui si basa questa osservazione è che questi farmaci agiscono interferendo con la γ-carbossilazione dei residui di acido glutammico sui fattori della coagulazione II, VII, IX e X. Poiché però la γ-carbossilazione di specifici glutammati è anche necessaria per produzione dell’osteocalcina e di altre proteine della matrice ossea, gli antagonisti della vitamina K possono interferire con la normale trofia muscolare e di conseguenza aumentare il rischio di fratture osteoporotiche. Studi su modelli animali hanno dimostrato come il warfarin diminuisca il tasso di formazione ossea e aumenti il riassorbimento osseo. Va ricordato inoltre che la vitamina K esercita un’azione sinergica con la vitamina D per la formazione del tessuto osseo.
In particolare, è stato dimostrato come una terapia a lungo termine con warfarin (≥1anno) induca un maggior rischio di frattura rispetto ai pazienti non trattati, con un odds ratio di 1,25: un’associazione quindi non particolarmente forte, ma pur sempre significativa. I maschi sembrano maggiormente interessati da questo effetto avverso del trattamento.
L’avvento dei nuovi anticoagulanti orali pone ora in termini aggiornati la questione: anche queste nuove molecole possono causare fratture ossee?
Il meccanismo d’azione di questi farmaci non interferisce con il ciclo della vitamina K, evitando così il rischio di anomalie nella formazione dell’osso e di conseguenti fratture, ma la risposta definitiva a questa domanda arriva da un recente lavoro pubblicato sul JAMA, che ha confrontato il rischio di frattura osteoporotica dell’anca e di frattura vertebrale in pazienti che assumevano dabigatran (3268 pazienti) o warfarin (4884 pazienti) per una fibrillazione atriale non valvolare.
L’1% dei pazienti che assumevano dabigatran, e l’1,4% dei pazienti che assumevano warfarin, hanno sviluppato una frattura durante il follow-up (1% versus 1,5% nell’analisi con propensity score). La mediana dell’intervallo di tempo trascorso tra prima assunzione del farmaco e frattura è stata di 222 giorni per dabigatran e di 267 giorni per warfarin. Contrariamente a quanto atteso, l’associazione con un rischio più basso del dabigatran è risultata statisticamente significativa sia per i pazienti con esposizione a breve termine, sia per l’esposizione a lungo termine. Va peraltro sottolineato che la riduzione del rischio di frattura è risultato significativo solo per i pazienti che già avevano riportato in anamnesi una storia di cadute o di fratture.
Questi dati sembrano quindi confermare un’incidenza maggiore di fratture osteoporotiche in soggetti che assumono warfarin, pur con differenze percentuali non eclatanti, rispetto a chi utilizza il dabigatran.
Forse questo non sarà un motivo determinante per orientare il medico verso la scelta dei nuovi anticoagulanti orali in pazienti con fibrillazione atriale non valvolare, ma certo in pazienti fragili e predisposti alle fratture osteoporotiche può fornire un elemento in più a favore di un trattamento con un miglior profilo di sicurezza.
Franco Folino