La placenta fornisce tutto il nutrimento, l’ossigeno e gli anticorpi di cui un feto umano in via di sviluppo ha bisogno, per prosperare durante la gestazione. Questo organo temporaneo inizia a formarsi entro 6-12 giorni dal concepimento, proprio come l’embrione si impianta nella parete dell’utero. La mancata formazione corretta della placenta è la seconda causa di aborto spontaneo nelle prime fasi della gravidanza, dopo le anomalie genetiche del feto incompatibili con la vita.
Tuttavia, le fasi iniziali della formazione della placenta sono rimaste un mistero a causa di considerazioni etiche e vincoli tecnici nello studio del processo negli esseri umani.
Una nuova ricerca, pubblicata recentemente sulla rivista PNAS e condotta dall’Università della California a San Diego, sembra aver superato queste limitazioni utilizzando cellule staminali pluripotenti umane. Lo scopo è stato quello di modellare la formazione dello strato esterno di cellule attorno a un embrione con la formazione di placenta.
Un gene chiamato VGLL1
I ricercatori hanno trattato le cellule staminali pluripotenti, che possono svilupparsi in qualsiasi tipo di tessuto corporeo, con una proteina di segnalazione chiamata BMP4 (proteina morfogenetica ossea 4) al fine di imitare la differenziazione cellulare nelle prime fasi dello sviluppo dell’embrione e della placenta.
Hanno scoperto che un gene chiamato VGLL1 (vestigial like family member 1) veniva attivato molto presto durante la formazione della placenta. Era fondamentale per il processo di trasformazione delle cellule staminali pluripotenti in vari tipi di cellule staminali placentari. Quando i ricercatori hanno ridotto l’attività di VGLL1, le cellule staminali hanno smesso di differenziarsi, bloccando lo sviluppo della placenta.
Lo studio ha così evidenziato come la VGLL1 potenziava le reti di segnalazione in molteplici vie importanti per la formazione della placenta, coordinandosi con un’altra proteina per regolare l’espressione genica specifica della placenta.
Inoltre, VGLL1 regolava direttamente un enzima chiamato KDM6B (demetilasi 6B specifica per la lisina) che “sblocca” i geni placentari in modo che potessero essere attivati.
Infine, VGLL1 era attivo, insieme a KDM6B, nello strato esterno dell’embrione precoce, soprattutto nell’area coinvolta nell’impianto, dove si forma la placenta.
Farmaci che prendono di mira VGLL1
Sebbene la ricerca sia ancora in fase preclinica, i risultati potrebbero potenzialmente contribuire a migliorare il successo della fecondazione in vitro in futuro.
“Abbiamo iniziato a comprendere meccanismi che potremmo essere in grado di manipolare per garantire il successo del trasferimento degli embrioni, ad esempio”, ha affermato Francesca Soncin, autrice principale e assistente professoressa presso il Dipartimento di Patologia della Facoltà di Medicina dell’UC San Diego. “Anche i farmaci che prendono di mira VGLL1 o geni correlati potrebbero essere utilizzati per migliorare la qualità e la vitalità dell’embrione”.









